Mi è capitato che un ragazzo indiano che sta per sposarsi mi abbia chiesto di fotografare per un paio d’ore una delle 5 giornate consuete: la celebrazione dello sposo.
È successo che ho rifiutato.
Ci sono molti motivi davvero semplici che basterebbero da soli per giustificare la scelta: il posto è in culonia lontanissimo (il che comporterebbe un’ora abbondante di metro all’andata + taxi fino alla meta finale, idem al ritorno), capita di giovedì (leggi: dover andare subito dopo essere uscita dall’ufficio dovendomi portare tutto ciò che mi occorre fin dalla mattina, tornare a casa verso le due e alzarmi 5 ore dopo per tornare in ufficio, essere poco produttiva a causa del sonno e crollare a letto una volta tornata a casa), occuperei un pomeriggio che mi serve moltissimo in questo momento per terminare di editare delle foto di un altro matrimonio evitando così di dover rimandare la consegna a quando tornerò dall’Italia.
Ma la verità è che io non sono una fotografa professionista; ho già un lavoro che mi paga affitto e spese varie. Il fatto che fotografare per lavoro sia una delle cose che mi renderebbero felicissima un domani non significa che io adesso debba perdere visione di quello che ho già, iniziando a camminare a un metro da terra per l’entusiasmo scaraventatomi addosso da qualche matrimonio.
Non voglio trascurare qualcosa che ho già per qualcosa che desidero più del poter mangiare solamente pollo allo spiedo tutta la vita.
Una volta mio padre scrisse una storia che parlava di un tizio che lavorava in banca, credo.
Tale tizio, per rilassarsi e scaricare lo stress lavorativo, il pomeriggio prendeva la sua barchetta e remava fino a raggiungere un luogo dove poter pescare in pace e silenzio. Un giorno si rese conto che la pesca avrebbe potuto essere il suo lavoro e che lui avrebbe potuto guadagnarsi da vivere facendo ciò che più lo rilassava. Iniziò quindi ad impegnarsi e a lavorare sodo per fare della pesca il suo lavoro: comprò un piccolo peschereccio, che con gli anni diventò un grosso peschereccio, assunse pochi dipendenti che in qualche anno diventarono qualche decina di dipendenti, si mise in proprio e crebbe tanto.
Però pescare non lo rilassava più.
Iniziò a sentire la mancanza della banca e della possibilità di dimenticarsi le rogne dell’ufficio una volta passate le 17.00, tanto che tornò sul suo vecchio posto di lavoro pregando il vecchio capo di dargli un’altra possibilità, e che avrebbe lavorato anche gratis.
(psssst pssst, mio padre ha postato la storiella sul suo blog, cliccate qui!)
Non ricordo se la storia fosse esattamente così, ma era simile. Il succo comunque si capisce. Io per adesso non posso, dopo aver fatto un turno in banca, prendere un peschereccio e andare a guadagnare altri soldi.
Ci sono tanti vantaggi nell’essere una fotografa professionista e sono tutti compresi nell’avere la possibilità di fare ciò che amo per lavoro, ma forse l’unico vantaggio di non essere (ancora?) una fotografa è potermi permettere il lusso ogni tanto di poter dire di no ad un evento che non mi fa saltare di gioia al solo pensiero e che comporta molti piccoli fastidi. Tra i quali quello di dover arrivare come uno zombi a lavoro il giorno dopo.
Accettare questa opportunità vorrebbe dire farlo solamente per soldi, e non voglio. Non ne ho bisogno e non mi piace.
Sbaglio? Boh, forse sì. ma per adesso posso ancora farlo.
Quory.